Spunti per una riflessione critica sul Jobs Act

Maria Grazia Campari

12 Aprile Sguardi critici sul Job Act
incontro con Maria Grazia Campari

Il lavoro è stato tradizionalmente considerato quale esplicitazione di una contraddizione esistenziale: strumento di costrizione ma anche di espressione di sé, vincolo e possibile veicolo di affermazione individuale e collettiva.
Una potenziale garanzia di dignità umana di ciascuno, per quanto economicamente svantaggiato.
Questo è il senso attribuito dalla Costituzione del 1948: una Repubblica del lavoro, cioè dotata di un “assetto istituzionale che metta al centro delle relazioni sociali l’operosità umana liberamente scelta” (C.  Mortati).
L’art. 1 della Costituzione fa del lavoro il cardine della costruzione istituzionale e il successivo art. 4 ne chiarisce il senso: qualsiasi attività che contribuisca al progresso materiale e spirituale della società, ciò che significa tutto il lavoro necessario alla vita, come hanno precisato le femministe nell’Agorà del Lavoro di Milano.
Quindi, secondo una logica democratica, le molteplici esperienze lavorative degli ultimi decenni avrebbero dovuto contribuire a creare un quadro istituzionale connotato da una estensione di regole garantiste a tutto il lavoro umano, inteso nel senso più ampio, unico modo di rendere effettiva l’ipotesi preconizzata dai costituenti di “progresso sociale individuale e collettivo” (Lelio Basso citato in “Libertà e lavoro dopo il Jobs Act” di G. Allegri e G. Bronzini, Derive Approdi 2015), attuando “un sistema di garanzia dai rischi della vita associata e di integrale liberazione del cittadino”  (ivi)
La smentita a questi obiettivi progressisti viene dalla legislazione contro costituzionale degli ultimi venti anni che trova il suo apogeo nella legge 10 dicembre 2014 n. 183 e negli otto decreti attuativi, complessivamente una Bibbia della controriforma del diritto del lavoro varato negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso che dava attuazione, con legge ordinaria, ai principi costituzionali.
Ci confrontiamo oggi con un regresso, un ritorno a condizioni pre-costituzionali, degne di una cultura a- democratica di stampo oligarchico.
Il complesso normativo detto Jobs Act è anche formalmente di lettura faticosa, talvolta penosa, a causa dei molti maxi articoli che coesistono con numerosi rinvii a testi normativi precedenti: un dispendio di Gazzette Ufficiali che non arrivano neppure a formulare un testo unico di diritto del lavoro.
Nel merito, esso porta a conclusione il piano contro riformatore, nemico del lavoro democratico su quasi tutti gli aspetti del rapporto; mi limiterò quindi all’esame delle questioni che mi paiono più rilevanti.
Precisamente, la qualità e la durata del contratto a forma “comune”, la quantità e qualità dei contratti a forma diversa da quella “comune”, la quantità della retribuzione.

1.Il contratto “comune” a tempo indeterminato

L’intento dichiarato sarebbe quello di introdurre come contratto di lavoro normalmente in uso quello a tempo indeterminato a “tutele crescenti”.
In realtà, questa legge porta a compimento l’opera di distruzione iniziata con legge 28.6.2012 n. 92 (c.d. riforma Fornero) che pone come asse portante della costruzione il mercato e svuota di diritti il lavoro.
Lo strumento è l’indebolimento, prima, l’annullamento, ora, per i nuovi assunti e progressivamente per tutti, della tutela dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, con la conseguenza di facilitare il ricorso impunito a licenziamenti individuali ingiustificati e arbitrari perché privi di giusta causa o giustificato motivo.
La privazione della tutela reale consistente nella reintegrazione giudiziale nel posto di lavoro, è sostituita dal solo obbligo di corresponsione di una esigua mercede: da 4 a 24 mensilità commisurate alla anzianità di servizio; minimi e massimi sono fissi e prescindono dall’entità del danno subito dal lavoratore in seguito al recesso padronale.
La legge rende possibile il licenziamento per motivi inesistenti o futili poiché impedisce l’indagine giudiziaria sulla proporzionalità fra comportamento sanzionato ed entità della sanzione massima, cioè il licenziamento disciplinare.
I soli casi di reintegrazione riguardano i licenziamenti orali, discriminatori, nulli per i quali risulta evidente la difficoltà di fornire prova certa in giudizio.
Non è difficile prevedere l’uso dello strumento espulsivo nei confronti di lavoratori ritenuti poco produttivi perché malati, infortunati (magari per nocività ambientale), assenti per motivi di cura famigliare, attivi sindacalmente.
La riflessione che si faceva a proposito della controriforma Fornero: rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato, viene superata dalla novella renziana che provvede a togliere ogni tentazione   di audacia eliminando del tutto i diritti.
Infatti, è consentito il demansionamento unilaterale del dipendente (prima fulminato di nullità dall’art. 13 Statuto dei Lavoratori) per generici motivi di riorganizzazione addotti dall’imprenditore, con grave incidenza negativa sulla professionalità e sulla dignità stessa della prestazione.
E’ la futilità del pretesto unilaterale oggi consentito che inquieta, poiché casi seri come la sopravvenuta inidoneità al lavoro, la gravidanza e il puerperio, già prevedevano la possibilità di consensuale assegnazione di mansioni inferiori in alternativa al licenziamento.
L’inquietudine trae origine dalla violazione palese dell’art. 35 della Costituzione là dove prevede l’obbligo di formazione e di elevazione professionale del lavoratore.
Altro motivo di deterioramento qualitativo è l’introduzione della video sorveglianza tramite dispositivi elettronici che sottopongono il lavoratore a monitoraggio costante durante la prestazione lavorativa e anche oltre, in tal modo annullando la norma di civiltà espressa nel divieto dell’art. 4 Statuto dei Lavoratori.

2. Contratti diversi da quello “comune”

Alla negazione della stabilità di cui si è detto, fa riscontro la pesante riduzione della durata del rapporto di lavoro attraverso molteplici strumenti, tutti previsti se non incentivati dalla legge.
La frammentazione è perseguita attraverso varie tipologie: contratti a termine, di somministrazione, intermittenti, accessori.
Viene portata a ulteriore effetto la liberalizzazione del termine apposto al contratto, malgrado  dichiarazioni di preferenza per il lavoro a tempo indeterminato, in omaggio solo formale alla direttiva europea (n.70 del 1999) .
Infatti, il contratto può essere a termine senza bisogno di enunciare ragione alcuna, può durare fino a 36 mesi, con la possibilità che, nel periodo dato, si verifichino ben cinque proroghe di sei mesi l’una, ciò che equivale a un periodo di prova di tre anni.
Anche il contratto di lavoro in somministrazione, quello che consente all’imprenditore di ricevere da agenzia autorizzata personale da adibire a qualsiasi mansione inerente il ciclo produttivo- cancellati completamente i divieti di interposizione di mano d’opera della legge 1369/60, già abrogata-, non prevede la sussistenza di alcuna ragione giustificatrice.
Viene meno qualsiasi razionalità causale, vale solo quello che si trova in mente domini.
Alla frantumazione dei periodi lavorati fa riscontro anche la frammentazione dell’orario attraverso l’uso indiscriminato del lavoro part time , che prevede la possibilità di orario elastico nella collocazione quotidiana o settimanale e nella durata (lo straordinario è consentito), sempre a discrezione padronale.  
Altra tipologia di frantumazione lavorativa presenta il contratto di lavoro intermittente, che si applica in particolare ai settori del turismo, spettacolo, pubblici esercizi e che può anche prevedere la possibilità per il lavoratore di rendersi disponibile, dietro compenso, per prestazioni a chiamata.
Fattispecie di chiusura è il contratto di lavoro accessorio retribuito con voucher. Introdotto nel 2003 al dichiarato scopo di fa emergere il lavoro sommerso (o nero), era previsto originariamente per categorie vessate dal mercato (donne, immigrati, disabili…), ma si è esteso, nel tempo, a tutte le categorie e i settori produttivi. Non a torto, dato che le vessazioni del mercato hanno progressivamente toccato tutti.
La legge delega (183/2014) ne prevede l’applicazione a tutte le attività discontinue e occasionali accessorie al lavoro principale in vari settori produttivi. In effetti, gli ambiti in cui il ricorso a questo tipo di lavoro è autorizzato sono i più vari e disparati (servizi, turismo, ristorazione, agricoltura, attività commerciali, anche industria e pubblico impiego) con un tetto retributivo annuo che arriva a €.7.000,00 (rivalutabili annualmente) pro capite. La copertura assicurativa (INPS e INAIL)  è minima, quindi questa forma di rapporto produrrà per il futuro pensioni quasi inesistenti, mentre per il presente non sono previste né indennità di malattia o di maternità, nè ferie nè trattamento di fine rapporto.
Al tema della conciliazione fra esigenze esistenziali e lavorative è dedicato apposito decreto (80/2015) che non innova le regole delle precedenti leggi se non modestamente in termini quantitativi e non vale certamente a scardinare il tradizionale privilegio riservato alla mano d’opera maschile e neppure a mutare di segno il rapporto fra i sessi in termini di ripartizione del lavoro di riproduzione sociale.
Assai modesto anche il congedo di tre mesi previsto per le donne vittime di violenza inserite in un percorso di protezione tutto istituzionale: non il tempo necessario alla loro sicurezza, solo la elemosina di tre mesi di retribuzione, qualunque sia il pericolo che le sovrasta.
Malgrado fosse previsto dalla legge delega (n.183/ 2014), nessuno degli otto decreti delegati fissa un salario minimo applicabile al lavoro subordinato.
Considerata la qualità della normazione con la quale ci confrontiamo, non vi è nulla di cui dolersi, anche perché la giurisprudenza ha da tempo provveduto a parametrare la retribuzione ai minimi fissati dai contratti collettivi nazionali di settore o di settori contigui, applicando l’art. 36 della Costituzione.
Questa tutela avrebbe semmai potuto essere estesa alle prestazioni rese da coloro che, non formalmente subordinati, sono economicamente dipendenti dal lavoro che svolgono in favore di terzi.
Non vi era, tuttavia, motivo di pensare che un legislatore tanto incline alle violazioni costituzionali potesse mostrarsi bene orientato nella questione retributiva.

3.Alcuni aspetti d’incostituzionalità

La considerazione più importante, che giova ripetere, è che il complesso normativo determina uno snaturamento totale del diritto costituzionale del lavoro, quindi un impoverimento estremo della nostra democrazia, fondata su ipotesi di partecipazione ed emancipazione progressiva dei soggetti, non certo sull’obiettivo del loro loro sfruttamento selvaggio, in omaggio al mercato.
Questione questa di grande importanza perché, come si intuisce, persi i diritti sociali in favore del mercato, presto si perderanno anche i diritti politici in favore di un pervasivo potere oligarchico.
Mi sembra interessante evidenziare sommariamente quali articoli della Costituzione repubblicana vengono messi in scacco.
Il disegno complessivo dei nove testi normativi contrasta l’emancipazione dal bisogno che è precondizione per lo sviluppo della persona umana verso traguardi di eguaglianza e di libertà (art. 3 della Costituzione).
La negazione della progressione nella professionalità e della dignità della prestazione lavorativa viola gli artt. 4 e 35 della Costituzione. Questa negazione è plurioffensiva perché mina contemporaneamente, attraverso la pluralità di soggetti coinvolti, il progresso complessivo della società.
Il patrimonio individuale di professionalità e sapere serve, infatti, anche al miglioramento materiale e spirituale del complesso di rapporti in cui ciascuno si trova inserito e che formano nel loro complesso la società.
La cancellazione di ogni patrimonio professionale nel lavoro subordinato si unisce alla frantumazione causata da una variegata tipologia di contratti temporanei (che restano quasi tutti, salvo qualche correzione nel contratto a progetto), ancor meno garantiti dal punto di vista della sufficienza della retribuzione, che dovrebbe essere –ma non è- finalizzata alla dignità personale e famigliare del lavoratore (art. 36 della Costituzione).
La dignità umana è caratteristica ineliminabile di una società orientata verso obiettivi di giustizia, come afferma anche la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Tutto al contrario, la legislazione degli anni Duemila delinea una società mercantile, divisa in caste inamovibili, in cui l’iniziativa economica risulta non solo svincolata dall’utilità sociale (art.41 della Costituzione), ma anche nemica esplicita della dignità umana e della solidarietà.
Come è stato scritto, questa grande trasformazione coinvolge l’intero assetto democratico : se il lavoro costituzionale è manifestazione di democrazia, il lavoro non tutelato da garanzie, divenuto servile, è espressione di oligarchia, di vittoria dell’1% della società a scapito del residuo 99%, sottoposto costantemente al rischio di scivolare nell’indigenza.
Le promesse di ampliamento della base produttiva come conseguenza della flessibilità si sono dimostrate fallaci. Le recenti rilevazioni apparse nell’ultimo Bollettino della BCE segnalano che l’andamento dell’occupazione in Italia è “al palo” mentre in tutti gli altri Paesi dell’Unione europea (Grecia compresa) è in aumento.
Più precisamente, da noi il 63% dei nuovi assunti sono precari, a tempo determinato o stagionali, nonostante la vigenza del Jobs Act dal marzo 2015 e l’esonero dalla contribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, in in vigore dal gennaio 2015.
In stretta coincidenza di tempi, la Finmeccanica ha deciso di estromettere il sindacato FIOM dalla trattativa sul contratto integrativo aziendale come forma di ritorsione per la proclamazione di uno sciopero non gradito perché concomitante con la riunione del consiglio di amministrazione e perché “su materie in corso di discussione nel negoziato”.
Non risulta che le altre organizzazioni sindacali abbiano messo in campo reazioni antagoniste.
La considerazione ovvia è che il conflitto si accende durante il confronto su temi controversi, ecco perché le azioni di sciopero si sono sempre svolte nel corso di trattative spinose e a sostegno delle ragioni della parte contrattuale socialmente più debole, che è quella che maggiormente risente della qualità del futuro contratto.
Ecco perché è senso comune che nel conflitto la classe padronale abbia stravinto.

4. Il grande rimosso: l’occupazione femminile

Non vi è dubbio che alla base della piramide antidemocratica si trovi la grande maggioranza  delle donne che sono le più colpite dal venir meno dell’apparato normativo garantista in favore della flessibilità delle “risorse umane”, rese merce nel mercato del lavoro.
La frammentazione del lavoro, spesso a chiamata, che rende quasi impossibile una pianificazione degli impegni personali non si concilia con le attività di cura famigliare che per le donne italiane  occupa fino a 51 ore settimanali se sono sposate e con figli.
Le rilevazioni statistiche dicono anche che il carico di lavoro famigliare, unito alla mancanza di valide strutture pubbliche di welfare, induce il 44% delle donne a rinunce di vario genere e intensità in ambito lavorativo, mentre ciò accade solo al 19% degli uomini. Un frutto avvelenato  della divisione sessuale del lavoro.
Come si è detto, tutto l’apparato legislativo degli anni Duemila ha imposto una flessibilità della prestazione lavorativa che determina la completa cancellazione della possibilità di autogoverno della propria esistenza, poiché il tempo della vita è conformato in via esclusiva sulle esigenze delle imprese.
Questa è una spiegazione realistica del fenomeno, ma solo di superficiale evidenza.
Non va dimenticato che molti casi mostrano come fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, per le donne si verificasse una sorta di anticipazione di precarietà giocata, però, nella grande fabbrica o nella grande distribuzione o nel terziario avanzato, vigente il diritto del lavoro garantista di allora.
Ne riferisco analiticamente in due scritti degli anni 2009 e 2010: “Donne ai confini dello stato sociale” e “Donne sull’orlo della crisi: casi di lavoro femminile fra produzione riproduzione” nel testo collettaneo “L’Emancipazione Malata” edito dalla Libera Università delle Donne di Milano.
 Si faceva allora presente che il futuro ha un cuore antico, cioè si affacciava la possibilità concreta di un regresso nella trama dei diritti e delle garanzie per tutti coloro (la maggioranza degli umani) che la lotteria della nascita ovvero le scelte personali collocano assai distanti dalle leve del potere. Respingono, cioè, ai margini della società, opulenta o in crisi che sia.
 Molti dei casi di lotta sindacale riferiti mostrano un intreccio fra conflitto di classe e conflitto di sesso per l’aggiudicazione di risorse via via sempre più scarse.
Si era reso evidente che, anche in situazioni (oggi impensabili) di lavoro stabile tutelato da un apparato di leggi garantiste, nei casi di licenziamenti collettivi e sospensioni in Cassa Integrazione Guadagni per ristrutturazioni aziendali, le donne apparivano penalizzate, dequalificate nelle mansioni,  espulse in via prioritaria, essendo carente già allora un sostegno efficace alla lotta da parte dei sindacati confederali; il che ci ha fatto pensare che molte erano iscritte a quelle associazioni, ma certamente non erano rappresentate.
Più precisamente, persino nelle grandi imprese, già prima della legislazione che ha favorito la precarietà del lavoro, nella vigenza di leggi garantiste di attuazione costituzionale, la mano d’opera femminile è stata penalizzata in termini di permanenza al lavoro, qualificazione e livelli retributivi; questa svalorizzazione di sesso in alcuni casi era persino favorita da accordi sindacali in deroga alla legge.
Oggi poi, anche se i dati non sono facilmente scomputabili per sesso, alcuni studi dimostrano che dell’enorme disoccupazione e inoccupazione giovanile, della gran massa di tipologie contrattuali flessibili, la parte più rilevante è riservata a esseri umani di sesso femminile.
In particolare, Valeria Solesin (giovane ricercatrice presso la Sorbona assassinata il 13 novembre 2015 da terroristi islamici) nel suo recente studio “Asimmetrie del mercato del lavoro e ruoli di genere”, rileva come il lavoro femminile sia nell’anno di grazia 2014 ancora strumentale alle diverse fasi della vita, nel senso che la maggioranza delle donne mette da parte la propria attività professionale quando si trova ad avere figli in età prescolare. Una scelta volta a garantire il benessere famigliare che significa “segregazione in ruoli di genere”.
In Italia, infatti, secondo statistiche ufficiali, il tasso di occupazione femminile è permanentemente inferiore di circa il 25% rispetto a quella maschile.   
Uno svantaggio rilevante che sembrerebbe destinato a produrre tensione tra la responsabilità delle vite e le costrizioni di un lavoro frammentato, più che mai subalterno (nella realtà, nonostante le definizioni mistificatorie), fino al punto di sollecitare un nuovo conflitto per conquistarsi una vita degna.
Un conflitto che mi auguro giocato congiuntamente da due sessi non divisi, all’interno della classe, da collocazioni fra loro antagoniste nel conflitto di sesso, attivato per ottenere il primato nella aggiudicazione delle magre risorse esistenti.
E’ mia opinione, infatti, che il conflitto di classe sia stato depotenziato dal conflitto di sesso indotto da pratiche egoistiche di stampo patriarcale entro la classe. Ne conseguono responsabilità politiche precise, ancora da analizzare compiutamente.

5. Una proposta
 
Quali le ipotesi di un possibile percorso.
Poiché le teorie e le pratiche del femminismo non sono esistite invano, mi sembra di capire che per le giovani generazioni il conflitto di sesso sia non dissolto, ma posizionato a un livello più alto; sia meno diffusa e pesante la (pur esistente) inferiorizzazione del sesso femminile.
Il che potrebbe agevolare la ripresa di un conflitto di classe per la giustizia e la libertà dal bisogno di ogni soggetto sessuato. 
L’emancipazione dal bisogno e la riacquisizione dei diritti fondamentali, che sono la precondizione per la partecipazione alla cittadinanza, penso richiedano di fare vuoto nell’attuale ordinamento che oggi mette in atto la violazione costante dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana.
Il percorso è tutto in salita e inizia, secondo me, da un conflitto serio per ottenere l’attuazione della Costituzione italiana e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ad esempio, il lavoro come fondamento della nostra democrazia deve riprendere vigore, dotato di quelle connotazioni di stabilità e sicurezza che sono il pilastro della libertà e del pieno sviluppo della persona umana e concorrono alla emancipazione individuale e collettiva (artt. 1 e 3 della Costituzione).
Occorre fare vuoto di tutte le norme che sviliscono la qualità e quantità della retribuzione la quale deve finalmente essere adeguata e sufficiente a garantire una esistenza libera e dignitosa (art. 36 della Costituzione) riconoscendo al contempo la formazione e la elevazione professionale di lavoratrici e lavoratori (art. 35,2 co. della Costituzione attuato dall’art. 13 Statuto dei Lavoratori ora obliterato).
Inoltre va data attuazione all’art. 30 della Carta Europea dei Diritti che offre tutela contro i licenziamenti ingiustificati, all’art. 31 che prevede condizioni di lavoro giuste ed eque e così via.
Si può pensare a ricorsi in giudizio  coltivati fino alla Corte Costituzionale e alle Corti europee.
Secondo me, la pratica del processo è lo strumento da utilizzare per contrastare un apparato di regole conformate sulle esigenze esclusive dei potenti, per affermare un diritto dotato di legittimità sostanziale perché “prodotto con relazione al mondo della vita.” (espressione di Giuseppe Papi Bronzini in “L’autonormazione dei soggetti individuali e collettivi per un ordine giuridico che abbandona l’universalismo”, Atti del seminario “Le Donne soggetto di diritto, soggetto di contrattazione”promosso da Osservatorio sul Lavoro delle Donne, Milano 28.1.1994).
La pratica del processo può essere incardinata come pratica politica; è una pratica che si è già sperimentata in passato come strumento di creazione di un diritto di origine giurisprudenziale che si colloca in prossimità delle esigenze di coloro che si rivolgono alle Corti di giustizia e tentano di far valere spunti di trasformazione evolutiva del diritto vigente.
Questa pratica non sostituisce né, tantomeno, contrasta pratiche conflittuali di tipo politico-sindacale; al contrario, spesso le supporta determinando spostamenti che favoriscono esiti progressivi (per i casi v. “L’Emancipazione malata” cit.)
La situazione attuale richiede il massimo sforzo per la modificazione più radicale e la pratica del processo può essere uno degli strumenti da porre al servizio del cambiamento, per la creazione di un diritto che renda visibili le pratiche e le relazioni che concorrono alla sua creazione.
Un diritto che mantenga nelle sue forme il processo relazionale e comunicativo che vogliamo porre alla base e che derivano da una sfera collettiva di pratiche politiche e di autoriflessione.
La sovranità statale è attualmente un fantasma, dissolta nella sovranità del mercato a livello sovranazionale, potrebbe essere un  buon momento  per tentare di dare vita a un pluralismo giuridico che contempli la compresenza di più sfere di produzione giuridica concorrenti, dando luogo a un diritto vivente, capace di registrare, attraverso i casi della vita, le legittime aspettative dei soggetti in carne e ossa, diversamente sessuati.

 

22 - gennaio- 2016